Intervista a Giovanni Damiano: “Dagli sbarchi pericolo mortale per l’Europa” – a cura di Francesco Boco per Il Primato Nazionale

I recenti eventi legati agli sbarchi di immigrati sulle coste italiane sembrano aver scosso l’opinione pubblica, mettendo però in luce l’inettitudine della classe politica. Come dovrebbe muoversi l’Italia per tutelare i suoi interessi nazionali?

R. Innanzitutto, ma è quasi un’ovvietà, avendo chiare le idee su quale sia il nostro interesse nazionale. E poi su come perseguirlo nel quadro dell’attuale contesto internazionale (senza cioè necessariamente prospettare soluzioni ‘massimaliste’, spesso radicali nella teoria quanto irrealizzabili nella prassi), tenendo inoltre ben presente, weberianamente, che l’uomo politico deve per prima cosa perseguire l’etica della responsabilità nei confronti della propria nazione e che quando prevale l’etica della convinzione (come nell’attuale ‘gestione’ – le virgolette sono d’obbligo – del fenomeno migratorio) il rischio del fiat iustitia et pereat mundus, è altissimo.

Da più parti si dice da tempo che le migrazioni di popoli sono sempre avvenute nella storia e sono state gli autentici motori della storia umana. Con questo si tende a sottolineare l’inevitabile abbattimento delle frontiere e la fine delle identità sin qui conosciute. L’immigrazione di massa verso l’Europa è dunque un processo inevitabile o si tratta di qualcosa a cui è possibile opporsi e a cui è possibile dare risposte radicate e concrete?

R. Secondo i dati pubblicati nel rapporto annuale dello SPRAR (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati) del 2011, a seguito del “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione” con la Libia, ratificato nel febbraio del 2009 dal nostro Parlamento, gli arrivi via mare sulle coste italiane sono stati 9573 nel 2009 e 4406 nel 2010. Credo sia inutile paragonare questi numeri con l’alluvione migratoria in atto. Ma credo sia altrettanto evidente come questi numeri indichino con chiarezza la possibilità che certi fenomeni possono essere ‘governati’ e non passivamente subiti, di contro a ogni lettura grossolanamente inevitabilista (che altro non è che un mero espediente ideologico). Così come lo stesso blocco navale è già stato adottato in più di una occasione e con modalità e ‘titoli’ di legittimità diversi (operazioni “Pellicano” e “Alba”) negli anni Novanta del secolo scorso per contrastare l’immigrazione clandestina dall’Albania. Il problema, more solito, sta quindi innanzitutto nella volontà politica. Per rispondere invece alla prima parte della domanda, direi, in sintesi, che quelle erano invasioni, altro che migrazioni…

C’è anche chi sostiene che l’Europa abbia causato col colonialismo e i suoi presunti danni l’attuale disastro sociale, economico e demografico africano. Questa visione però non riduce un fenomeno storico di grande portata a puro pretesto strumentale viziato da pregiudizi essenzialmente anti-europei?

R. Mi sembra anche questo un classico argomento ideologico, e cioè antistorico. A prescindere da quel che si può pensare del colonialismo, di certo non lo si può intendere, ripeto antistoricamente, come una sorta di ‘passato che non passa’, ancora oggi responsabile dei mali dell’Africa.

Alla luce di quanto sin qui detto, quale futuro vede per l’Europa e la sua composita identità storica e culturale? Siamo di fronte a un momento decisivo sul piano biologico e storico?

R. È una domanda troppo complessa per potere essere presuntuosamente affrontata in poche righe. Di sicuro non è la prima volta che l’Europa vive tragici momenti di crisi. Anzi, non poche volte, per parafrasare Heidegger, dal pericolo è venuto per l’Europa ciò che l’ha salvata. Il punto sta sempre nelle risorse, materiali e soprattutto spirituali, dei popoli europei. Ma è ovvio che una ‘sostituzione etnica’ di questi popoli con genti provenienti da ogni dove reciderebbe alla base ogni pur minima possibilità di un nuovo inizio dell’Europa come terra della differenza, non essendo nemmeno pensabile una Europa senza europei.

In molti paesi europei si sta creando una condizione di vita simile a quella degli Stati Uniti d’America: popolazioni di varie provenienze extra-europee suddivisi per quartieri e zone urbane. Gradualmente la popolazione autoctona percepisce il pericolo di diventare minoranza nella propria nazione. Si tratta, come dicono alcuni, di un vero e proprio processo di “sostituzione” di popolazione? E ancora, un territorio può essere considerato di “proprietà” di un popolo senza condizioni o piuttosto esso richiede una continua opera di ripensamento, rigenerazione e radicamento?

R. In buona misura, se uniamo l’invasione migratoria in atto (che ha alle spalle l’esplosiva demografia africana), con il declino della natalità autoctona europea, parlare di ‘sostituzione etnica’ non credo sia fare del facile allarmismo; al contrario, mi sembra una eventualità purtroppo sempre più probabile. In quanto agli insuccessi dei vari modelli ‘integrazionisti’, non c’è bisogno di guardare oltreoceano. Bastano i suburbi di non poche città specie del centro e del nord Europa. In merito all’ultimo interrogativo, in estrema sintesi, ritengo che il rapporto territorio-popolo vada inteso in senso dialettico-concreto, quindi incessantemente attraversato e riscritto dalle imprevedibili vicende della storia. Ma ciò non deve far dimenticare che questo rapporto non si risolve in termini esclusivamente ‘mondani’, esistendo una dimensione ulteriore che è quella della geografia sacra. Come questi due piani si pongano in relazione reciproca è però questione troppo complessa per essere anche solo accennata qui.

La spoliticizzazione della società e il disinteresse delle giovani generazioni per la politica è un “segno dei tempi” o indica una sorta di reazione a una situazione insopportabile? Date le condizioni attuali, dove ogni concreta opposizione allo stato di cose e al processo annichilente di identità e culture appare inefficace e impotente, la plurimillenaria eredità europea è da considerarsi condannata all’oblio o è possibile una risorgiva, nascosta magari nell’eredità biopolitica europea?

R. Le due questioni mi paiono unite nell’essenziale: se i processi storici sono inevitabili (o avvertiti come tali) la politica non ha più senso, se non come semplice amministrazione dello stato di cose presente. In altre parole, la spoliticizzazione altro non sarebbe che la versione ‘secolare’ delle ‘fantasie da kali yuga’ tipiche di certo milieu tradizionalista. Oblio e nuovo inizio dell’Europa sono invece entrambi possibili, a patto di mettere radicalmente in questione ogni inevitabilismo ( e ogni idea, in senso lato spengleriana, di un tramonto senza più aurore). E a patto, l’ho già detto in precedenza, di preservare un ‘fondo’ autenticamente europeo.

Il metodo genealogico è indubbiamente più efficace di ogni racconto lineare nel ricostruire come una tradizione si è formata. è ancora possibile tracciare una genesi della civiltà europea, seppure non lineare e problematica, che possa in qualche modo fornire gli strumenti culturali di una nuova fondazione identitaria?

R. Il metodo genealogico sfugge a ogni interpretazione inevitabilista della storia, proprio perché riconosce il carattere frammentario e ‘intermittente’ di ogni dinamica identitaria. Nel caso europeo la domanda apre prospettive immense nemmeno lontanamente sfiorabili nei limiti di questa intervista; per rimanere al solo campo delle relazioni internazionali, l’Europa come terra delle differenze sorge col multipolarismo delle poleis greche, passa attraverso esperienze come la quattrocentesca Lega Italica, per poi trovare la sua ‘età dell’oro’ (nessuna idealizzazione, però!) con la società di Stati europea (mi servo della terminologia di Hedley Bull, ma intendo ciò che Schmitt ha definito jus publicum europaeum) nata dopo la pace di Westfalia del 1648 e continuata, con l’interruzione del periodo rivoluzionario-napoleonico, sino al 1914.

 

13-05-2015