Anelli che non tengono, fili da disbrogliare

Sgradevole e un po’ ridicolo parlare di ingiustizia quando si è direttamente coinvolti. Più facile e meno sospetto è farlo quando tocca ad altri, lo scacco. A persone con cui non c’è nessun rapporto, nessun nesso di convenienza. Una delle ingiustizie letterarie più clamorose degli ultimi tempi è quella che è capitata a Sangue di cane, romanzo di una scrittrice siciliana, Veronica Tomassini, testo così evidentemente superiore a quanto si scrive oggi in narrativa che lo si dovrebbe proclamare ai quattro venti, in questo momento di stucchevolezza insopportabile dell’editoria, borghese quanto può essere borghese e avvilente quanto può essere avvilente il lettino di uno psicanalista.

E’ così evidentemente superiore Sangue di cane – come d’altronde lo era Accabadora di Michela Murgia rispetto alla nenia infelice e morbosetta di un Acciaio, testo furbissimo, di cui è bello (veramente bello, bisogna riconoscerlo) solo il titolo, promessa di verismo non mantenuta. Nonostante l’orrore e la sgradevolezza dell’ambientazione, nonostante Sangue di cane sia pieno di parassiti e marciumi, di ‘schiuma’, è uno dei pochissimissimi romanzi che valga davvero la pena leggere, per la sua forza, la sua asprezza, il suo estremismo, la sua nostalgia di mistica e approdi celesti. Perché è di sangue che parla, e non di ‘problematiche’. Perché è quello che l’arte dovrebbe essere: scuotimento, irruzione dell’impensato e dell’inaudito, meraviglia.

Il libro deve esserci superiore, altrimenti possiamo fare a meno di perdere del tempo a leggerlo. Deve farci vacillare, quasi abbatterci, se vuole renderci più forti. Questo dovrebbe essere, il libro, l’arte. Fuori dal seminato della ragionevolezza, della ‘modestia’, via via anni luce distante dal nostro salotto buono, dai casi minuti dell’esistenza. Non deve aiutarci a dimenticare, ma farci ricordare, inchiodarci di fronte alle questioni radicali della vita, parlarci di fatalità, di tragedia, non di depressioni, di nevrosi, di piccoli intoppi dell’inerzia quotidiana. Non deve consolarci della nostra imperfezione individuale, rispecchiandoci. Non deve ribadire il già noto, ma descrivere l’ignoto, o quanto abbia indovinato di esso. Ci si deve perdere, in un libro, sparire come ‘io’ capricciosi, non ritrovarsi.

L’errore peggiore, più grottesco e volgare, sarebbe esaltare Sangue di cane per ragioni morali, sociali, ‘umane’. E’ un libro aumano, selvaggio, dionisiaco: non lo si voglia rimpicciolire, addomesticare.

5 luglio 2011