Karlito’s way (di Sputacchina)

Io li capisco, gli stilisti e quelli che lavorano nella moda. Non dico di no. Anzi. È una categoria che di anno in anno mi fa più tenerezza. Ogni anno, quando mi capita di incontrare qualche informazione nuova sulla moda, mi ci accosto con una certa malinconica benevolenza. Perché è un lavoro poetico e insieme duro. Logorante. Quasi una missione spirituale. Di anno in anno, a questi poveri esseri umani viene chiesto di portare nel mondo qualcosa di inaudito e spiazzante. Che non sia semplicemente bello, comodo e ben fatto, gli si chiede qualcosa che liberi, che sia di rottura, che parli alle masse, in poche parole qualcosa di politico. I disgraziati devono star lì da mattina a sera a pensare all’ennesima variazione sul tema pantaloni/camicia/abito/calzatura, capi d’abbigliamento che esistono più o meno da tremila anni e su cui già caterve di persone hanno ponzato, improvvisato, variato, sperimentato, riscoperto, incrociato, abbattuto pregiudizi, aperto barriere, liberato la donna, l’uomo, il bambino, la bestia domestica, parlato alle masse e via dicendo. Che piova o che ci sia il sole, che soffi il vento o incomba l’afa, che l’umore sia gaio e garrulo o nero come il corvo, devono mettersi a tavolino, tirar fuori la matita (senza addentarla, beninteso, che se fai lo stilista hai un’immagine e devi conservare il tuo peso forma e non ti è concesso mangiare nemmeno la staedler o le unghie, che non si sa mai che entrambe ingrassino) e ponzare, improvvisare, variare, sperimentare e tirar fuori qualcosa di nuovo, e soprattutto di inaudito, di mai visto, di scioccante, di paradossale eccetera da mettere addosso alle modelle di turno, per liberare quelli di cui si è già detto.
Dopo tremila anni, l’iter lavorativo vuole ancora che i poveretti passino ore e ore a palpare stoffe e a immaginare accostamenti, fino ad arrivare alle ovvie derive dei nuovi colori moda, di anno in anno i più brutti e improbabili in assoluto, dal viola funerale al verde oliva marcia al grigio topo di fogna al marrone escremento, e dell’usare i pizzi per l’inverno e la pelliccetta per l’estate, perché il mondo continua a chiedere qualcosa di rottura e rottura dev’essere. Per non parlare delle ripercussioni sulla psicologia. Nel pieno della morte dell’anno pensare convinti a una collezione primavera-estate e nello splendore di maggio già farsi suggestionare da un’impressione di foglie cadenti. Provateci voi a immaginare che scompensi. Oltre al fatto di perdere completamente la bussola del senso estetico a forza di trovare giustificazioni agli spasmi della propria fantasia sovrastressata sputati fuori in extremis. E questo nella normalità. Perché poi possono toccare quei castighi karmici tipo disegnare un’intera collezione estiva di costumi da bagno, oppure partorire un centinaio di disegni di occhiali. Rendiamoci conto. Un centinaio di disegni di occhiali. Nemmeno l’umanità fosse fatta di mosche. E questa è l’apoteosi: dopo tremila anni, partorire qualcosa di nuovo liberante di rottura eccetera con due lenti e due stanghette. Da andare in analisi. Chiaro che la moda ha una profonda funzione sociale, visto come fa girare i soldi e dunque l’economia. Ma si dovrebbe rendere conto che fa girare anche qualcos’altro.
È ovvio dunque che di fronte al centomilionesimo scamiciato improvvisamente ti scatti qualcosa dentro e provi un desiderio viscerale e inconfessabile di partire per un camping nudista in cui finalmente ciascuno possa stare esattamente come mamma l’ha fatto e al massimo e non rompa le palle. Chiaro che dopo devi farti delle sessioni estenuanti di pilates per dimenticare e sparire su isole deserte del Pacifico per calmare un po’ i bollenti spiriti. Che ti butti sul famolo strano. O che, all’ennesima sfilata milanese pre autunno/inverno anche se siamo in pieno luglio e fa pure un certo caldo, nell’anno del signore 2014, si tiri fuori qualcosa come Karlito.
Ma chi è Karlito? È la domanda che mi sono fatta anch’io quando mia madre mi ha salutata chiedendomi se avessi visto Karlito sul giornale. Così, su due piedi, ho pensato che qualcuno degli amici di famiglia che si chiamano Carlo fosse assurto agli onori delle cronache per qualche nuova scoperta ed ero già contenta che finalmente qualcuno riconoscesse il valore del genio umano e così via, e pronta a fare le dovute felicitazioni. Più realista, ho pensato poi a Carlos Gardel, Carlitos per gli amici. Però il giornale era aperto sulla pagina dedicata alla moda. E io non ho amici Carli che si occupino di quello. Ora che ci penso, né Carli né non Carli. E Gardel con la moda non ha avuto mai a che fare. Insomma, oltre a essersi reso evidente che ero fuori strada, a una veloce occhiata si è capito anche chi fosse il fantomatico essere. Di certo non un mio amico. E nemmeno conoscente. Karlito è praticamente fatto tutto di pelo. Ha una specie di coda bianco-nera-grigia, di volpe. Una cravatta, di vera pelle nera. Occhiali che non permettono ai suoi occhi di vedere la luce del sole, e viceversa. Occhiali di visone nero, dimenticavo. Camicetta bianca. Capelli, o peli, bianchi candidi anche quelli. E poi un’appendice, coda, ciuffetto, cresta, non so bene che definizione darle, in kidassia (genere di pelliccia di cui, per la cronaca, ho appreso ora l’esistenza. Vedi che non si smette mai d’imparare). Karlito è in vendita alla modica somma di euro 1240. Milleduecentoquaranta tondi. Adesso credo che nella vostra immaginazione si sia disegnata la fantasia di una sorta di gigolo di altissimo livello, uno anche un po’ volgare, un po’ kitch, tutto così impellicciato, uno di quei pinguini che certo però a un dato target femminile piacciono e non c’è niente da fare, tutto muscoli e profumi squallidi, stangone, palestrato, ingioiellato. E invece no. Perché Karlito non è nemmeno stangone. Misura al massimo dieci centimetri. E, a dispetto del prezzo, non è certo una bellezza.
Già. Karlito non è una persona e non è un animale. E non è nemmeno un oggetto – intendendo per oggetto un qualcosa di utile, che faccia la sua parte in questo mondo, come la forchetta, la lampadina, il tappeto, lo scacciapensieri e via dicendo. Karlito è un portafortuna. Uno charm, così come si dice nel lessico specifico. Una di quelle appendici che si possono attaccare ai braccialetti, ai jeans, o, come nel nostro caso, alla borsa – per questo detto anche bag bug o bag boy – la cui funzione e utilità sarebbe quella di stare a pendere passivamente dalla mattina alla sera, come se non ci fossero già abbastanza persone costrette a questo dal carattere o dai condizionamenti ambientali, e guardare il mondo da dietro i suoi occhialoni di pelo. Karlito è stato partorito dalla disperazione di uno stilista che ne ha viste tante, e che in materia di collezioni intere di occhiali da sole e costumi da bagno avrebbe da dire la sua, visto che è dalla bellezza degli anni ’50 del secolo scorso che non fa altro che avere a che fare con la moda e i profumi e i marchi mastodontici come Chanel, Fendi e compagnia. E per quello, prima si è convertito a un bicolore furioso e oggi è impossibile vederlo vestito di una sfumatura che non sia il bianco o il nero puri, poi si è messo gli occhiali da sole, che praticamente non si leva più – insomma, piano piano si sta mummificando vivo fino a quando non lo troveremo immobile spettatore di un défilé e sapremo che si è defilato pure lui. E che per esasperazione, vendetta, senilità, o che so io, a questo punto della sua carriera ha sputato fuori questa specie di gesto futuristico di gran dispitto, di dito medio rivolto all’umanità sotto mentite spoglie, di scherzetto sadico, di linguaccia, d’ispirazione più o meno autobiografica, che sarebbe appunto Karlito, presentato durante la recente settimana della moda milanese.
Allora. Lui lo possiamo anche capire. Anzi, condividiamo in pieno. Al suo posto forse il Karlito lo avremmo tirato fuori dal cilindro già da qualche anno. Appunto, sono secoli che sei immerso nella broda di modelle modelli fotografi e artistame vario, che la gente si aspetta fantasmagorie dalla tua HB, che ti intervistano sempre, sempre e solo, su questioni relative a pizzi e merletti e alla figura di Coco Chanel, anche se a un certo punto magari vorresti dire la tua anche su qualcosina d’altro, che invece di salutarti ti si appendono alle labbra chiedendoti consigli su come vestirsi dalla mattina alla sera alla mezzanotte, che dopo un po’ è fisiologico non poterne più e replicare in maniera anarchica disegnando un pupazzetto schifoso (tant’è vero che perfino la modella incaricata di portarlo a spasso sulla passerella non sembrava molto convinta, visto che lo teneva tra il pollice e l’indice), in edizione limitata, da vendere al corrispettivo di uno stipendio impiegatizio medio-alto in tempo di crisi. E di organizzare in suo onore anche una festa. Per guardare a che punto è arrivato il mondo. Lui, lo stilista, anarchico bianconero, lo si capisce.
Quello che non si capisce sono i fan che come valchirie wagneriane sono corsi ad aggiudicarsi per la modica cifra la bestia pelosa e, non contenti, hanno partecipato attivamente al party di benvenuto. E ancora meno quelli che, poiché arrivati tardi, si sono affrettati a farsi avanti e ora stanno facendo i conti con l’ansia di rimanere a borsa asciutta senza Karlito, andando ad allungare una lista d’attesa che già ora si aggira intorno alle 600 persone. Non si capisce la deliziosa stampa di sinistra che, qualche pagina dopo le notizie sulla corruzione e gli sviluppi della crisi, ne parla con entusiasmo verace, come se nulla fosse. Non si capiscono i blog di moda, popolati da aspiranti socialite che però ci tengono a professarsi impegnate e antiberlusconiane (forse perché non hanno ancora realizzato che non è più Berlusconi il presidente del Consiglio), hasta la Victoria (Beckham) siempre, che, facilement, senza pensieri, inneggiano al genio autoironico dello stilista e sono pronti a passare come niente sopra l’importo ventilato – che sarà mai. E si capiscono poco anche i vari indignados spalmati per lo stivale che invece di mordere abbaiano da mane a sera e si lasciano scappare queste chicche sociali. Karlito, d’altronde, è ben riconoscibile. Capire che sia lui quell’appendice pelosa attaccata a una borsa è un attimo. Fare un gesto anarcoide uguale e contrario a quello dello stilista pure. Come un tempo c’erano i bad boys e adesso ci sono i bag boys, probabilmente non ci sono più le brigate rosse di una volta. Mi sa che anche quelle sono diventate optical.

Sputacchina

20-07-2014