Sorprendere la storia. Per una diversa ‘grammatica’ del tempo (di Giovanni Damiano)

“Il concetto di tempo storico sta in opposizione
all’idea di un continuum temporale”
(Walter Benjamin)

L’epoca barocca disdegna la novità e l’innovazione e legittima il mutamento solo se posto sotto il segno del ritorno al passato e della difesa della tradizione (cfr. le tesi di Rosario Villari; ciò spiega a sufficienza, per inciso, perché Huizinga definì quella olandese una “rivoluzione conservatrice”; lo stesso vale per il caso inglese). La storia pensata iuxta propria principia giunge a piena consapevolezza solo nell’età dei Lumi, con un doppio gesto, uno annichilente, l’altro promettente: il tempus novum, inteso come epoca nuova, attuale, insomma ‘moderna’ (una conferma viene dall’evidente transizione lessicale tedesca da “neue Zeit” a Neuzeit), e dunque svincolata da qualsivoglia tutela teologica, si qualifica, contemporaneamente, come irriducibilità rispetto al passato (che viene cancellato, oppure abbassato/derubricato a oscurità destinata immancabilmente ad essere superata), e come apertura a un futuro carico di attese/aspettative ‘progressive’ ed emancipative (oggi malamente mascherate dalle retoriche del ‘disincanto’ e della presunta fine delle ‘grandi narrazioni’).
Pertanto, la concezione illuminista della storia, pur debitrice della visione cristiana del tempo (cfr. i lavori di Walter Freund e di Karl Löwith), la ribalta laicamente in una miscela peculiare di prognosi razionale dell’avvenire e di certezza della futura salvezza. Non solo, perché tale concezione trova subito in sé i meccanismi immunitari capaci di preservarla dalle critiche di stampo ‘tradizionalista’. Infatti, persino il rifiuto che la modernità fa di se stessa – la sua autocritica, in vista di un nostalgico ritorno all’origine premoderna – è possibile solo in base alla coscienza storica (in quanto tale, appunto moderna) della propria eterogeneità rispetto a ciò che la precede. Il che rende impossibile, alla lettera, qualsiasi tentazione di ‘scavalcare’ all’indietro la modernità, perché quest’atto sarebbe appunto massimamente moderno. E anche eventuali velleità post-moderne altro non sarebbero che la riprova della “coazione a superare” (Canetti) della modernità. Infatti, una modernità che si supera, conferma la sua essenza nell’atto stesso di superarsi (l’intrascendibilità di questa concezione della modernità è già in Condorcet: il fine della storia coincide con il progresso indefinito. Valgano al riguardo le osservazioni di Reinhart Koselleck).
Daccapo: la storia resasi autonoma, s’impernia sulla doppia dimensione presente/futuro e sul contestuale sacrificio (propiziatorio) del passato. Il parricidio – in questo caso, l’uccisione del passato – è norma a cui la rivoluzione temporale, per coerenza di destino, non può sottrarsi. A maggior ragione, l’eterno viene travolto dall’incedere trionfale della storia autonominatasi unica realtà dell’uomo. L’eterno come ‘altro’ museale, un ‘altro’ ridotto a relitto dalle impazienze del tempo storico.
Ora, il destino cui va incontro l’endiadi presente/futuro nella mutata temporalità storica è oltremodo significativo. Oscilla tra un presente paradossalmente svuotato di senso proprio in quanto sovraccarico di senso, e un futuro trasformato nello ‘sbocco’ necessario (a partire da un presente altrettanto necessitato) di quella che a tutti gli effetti si rivela essere una ipertrofia dell’attesa, una inflazione di aspettative. In pratica, presente e futuro cortocircuitano, perdendo le loro caratteristiche distintive: il presente non è più in grado di incardinarsi su se stesso, il futuro vede collassare la sua imprevedibilità, il suo essere un orizzonte aperto.
Il nesso necessario che lega presente e futuro nella ‘linea’ del progresso finisce, insomma, per perdere entrambi. Il presente infatti è visto come mera preparazione di un domani infallibilmente destinato a realizzarsi, è costretto dalla dinamica emancipativo-progressiva ad essere a forza calato nello ‘stampo’ di un futuro già scritto.
Non solo: avverte Koselleck che i margini di tempo delle azioni e delle aspettative si sono accorciati sempre più. Il tempo futuro del progresso incalza, sollecita e dilata parossisticamente il presente. Ecco perché si ha oggi la sensazione di vivere in un presente ‘eternizzato’, quasi ‘parmenideo’, apparentemente sottratto all’ansia dell’infuturarsi. Ma certo non capace di raggiungere la persuasione michelstaedteriana. Perché tale ‘stare’ è appunto solo apparente. Nel senso che la fretta di raggiungere il futuro e i ‘premi’ che sembra promettere è a tal punto aumentata da far sì che presente e futuro quasi si confondano l’uno nell’altro. E a nulla valgono sia i lamenti ‘reazionari’ di chi anela al buon tempo antico della ‘lentezza’, sia le finzioni di chi vorrebbe scindere il ‘progresso’ dai suoi esiti catastrofici. Sono tentativi inani, condannati in partenza dalla logica ferrea che anima il Nervenleben ‘progressista’, che ne costituisce l’intima ratio.
La modernità, pensata come divenire storico la cui legge razionale è il progresso e la cui promessa (valevole come certezza, come atto di fede) è l’emancipazione universale, è in fondo inaggirabile, inoltrepassabile. E allora, una possibile alternativa, che ad oggi non può che essere un modesto segnavia (ovvero una semplice indicazione di direzione), andrà ricercata non in oniriche fuoriuscite dalla modernità ma in un’altra modernità.
Al riguardo, una strada che mi sembra possa essere percorsa con qualche realistica prospettiva di ‘tenuta’, innanzitutto teoretica, è quella indicata dal concetto di Multiple Modernities, elaborato da Eisenstadt. Pensare a un concetto plurale di modernità, ossia a delle modernità multiple, consente innanzitutto di disfarsi di una concezione univoca, rigida e schematica di modernità, che corrisponde appunto a quella accennata in precedenza. La modernità non seguirebbe così un tracciato prestabilito e unidirezionale, non esistendo una sorta di modello predefinito di ciò che sarebbe ‘moderno’. Non si darebbe, in breve, una e una sola modernità, in quanto tale necessitata, destinata a non poter essere altro da ciò che è. Al contrario, si possono dare più modernità, spezzando così l’egemonia della modernità intesa come progresso incessante ed emancipazione illimitata. Rispetto al non ci sono alternative (vero e proprio elogio dell’esistente), si profila il poter-dar-luogo a un differente corso delle cose. Da qui, quella libertà (immanente al concetto di modernità multiple; sua nota distintiva) che è appunto possibilità di creare aperture, di sorprendere la storia e così strapparla alla prevedibilità tranquillizzante del già detto. Libertà, anzi, che è l’apertura stessa, lo ‘spacco’ che fessura-lacera ogni visione monolitica della modernità.
Nondimeno, occorre radicalizzare lo stesso concetto di modernità multiple, che Eisenstadt legge principalmente come messa in discussione degli assunti egemonici e omogeneizzanti del progetto occidentale di modernità, sostituiti da una molteplicità di strade ognuna in qualche maniera corrispondente a contesti storico-culturali differenziati (per cui avremmo una ‘via cinese’ alla modernità, una ‘indiana’, ecc.).
Il vero punto di svolta, il principio ‘archimedeo’, consisterà allora nel rintracciare e nel far emergere all’interno dello stesso mondo ‘occidentale’ un’altra modernità, in modo da deviarne il percorso. Da qui, un far di nuovo perno sul presente (una prospettiva quindi pienamente ‘attuale’), un presente ricondotto al qui-e-ora, all’adesso come tempo della decisione, come scelta tra futuri compossibili (riguadagnati, dunque, al ‘gioco’ dell’imprevedibile). E tra questi futuri si dà anche un possibile nuovo inizio di ciò che sembrava irreparabilmente tramontato (ovvero: il passato riconquistato). Di contro al passato distrutto/obliterato. Di contro al sogno fatale della rinuncia ad avere un passato se non come smorta successione di eventi tutti egualmente vuoti.
In chiusa, poche parole di Marc Fumaroli, tratte dal suo Le api e i ragni, felice sintesi dell’inconciliabile dissidio che corre tra la modernità unilaterale (che banalizza il tempo, deprivandolo delle sue qualità) e quella capace di contemplare un nuovo inizio: con il trionfo settecentesco dei Moderni, “l’Antico smette di essere considerato come un principio ricorrente dei ‘Rinascimenti’, e il Nuovo smette di essere la primavera ritrovata di una dimora abbandonata e dimenticata, ma diventa un ‘mai visto’ che sorge su una tabula rasa”. È tempo che la tabula rasa lasci il posto a qualcos’altro. È tempo di nuove aurore.

Giovanni Damiano

13-11-2014