Algardi Zara

dottrina-del-fascismo

Autore: Zara Algardi
Titolo: Furor di popolo
Collana: Inchiostro di proscritti
Prezzo: 23,00€

Narra diversi eventi questo libro, che contiene il resoconto integrale del processo al questore nazifascista di Roma Pietro Caruso. L’eccidio di via Rasella, la rappresaglia delle Fosse Ardeatine, il linciaggio di Donato Carretta, il processo e la morte di Pietro Caruso scorrono in sequenza rapinosa. Alle persone del dramma la sorte gioca uno scherzo di orribile gusto sacrificale: il principale testimone a carico di Caruso, l’”onestissimo e umano” direttore di Regina Coeli, Donato Carretta – il quale “nel periodo della dominazione nazista collaborò col Comitato di Liberazione Nazionale” -, viene linciato dalla folla, che pretende giustizia, sùbito.

La particolare morbosità e crudezza del linciaggio richiama alla memoria la scabra novella di Verga: “Libertà”. Identica è la morale: perfettamente immorale.

Da “Libertà”, di Giovanni Verga:

Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza:

- Viva la libertà!

Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche, le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.

- A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! – Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie.

- A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima! – A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! – A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! – A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno!

E il sangue che fumava ed ubriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue!

- Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli!

Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede.

- Perché? perché mi ammazzate? – Anche tu al diavolo! – Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro.

- Abbasso i cappelli! Viva la libertà! – Te’! tu pure! – Al reverendo che predicava l’inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll’ostia consacrata nel pancione.

- Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale! – La gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l’inverno della fame, e riempiva la Ruota e le strade di monelli affamati! – Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure.

Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia. – Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse – lo speziale, nel mentre chiudeva in fretta e in furia – don Paolo, il quale tornava dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna.

Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. – Paolo! Paolo! – Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure.

Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello.

Ma il peggio avvenne appena cadde il figliuolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro, non si sa come, travolto nella folla.

Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di trascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli:

- Neddu! Neddu! -

Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò disopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e gliel’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. – Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; – strappava il cuore! – Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni – e tremava come una foglia. – Un altro gridò: -Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!

Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli! – Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente.

Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando d’ira in falsetto, colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti.

- Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste di seta! – Tu che avevi a schifo d’inginocchiarti accanto alla povera gente! – Te’! Te’! – Nelle case, su per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine.

Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli d’oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure!

La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle almeno.

La folla chinava il capo alle schioppettate, perché non aveva armi da rispondere.

Prima c’era la pena di morte per chi tenesse armi da fuoco.

- Viva la libertà! -

E sfondarono il portone. Poi nella corte sulle gradinate, scavalcando i feriti.

Lasciarono stare i campieri. – I campieri dopo! – Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono.

Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata – e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume.

Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anch’esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti, gridando: – Mamà! Mamà! – Al primo urto gli rovesciarono l’uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo calpestavano.

Non gridava più. Sua madre s’era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza.

L’altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avute cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri.

Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante.

L’altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso.

Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria.

E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio. Fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, in quel paese di turchi. Infine si sbandarono, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume.

Per le stradicciole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte.

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