L’altro non ha memoria. Brevissime note su Victor Segalen (di Giovanni Damiano)

La sfera è la Monotonia

(Victor Segalen)

 

 

In cerca dell’altro non addomesticato, attraverso cui ritrovare sé o appunto l’altro (o sé e l’altro?), perciò non ridotto come la tigre di Adorno (Minima moralia, af. 74), che mantiene una sua ‘umanità’ solo smarrita nel chiuso della gabbia, senza false promesse di libertà.

Prima evenienza: lettera di Herder a Goethe del 27 dicembre 1788: “io ho viaggiato fino a Roma per diventare un vero tedesco”. Tramite l’altro si conosce il proprio. Nei casi più estremi il proprio è l’altro, incatturabile dal logos comune, irrappresentabile. È “l’abissale solitudine della follia” (sempre Adorno, stessa opera, af. 103). È, più ancora, la morte, l’altro che tutti saremo.

Il lato negativo della ricerca: la grossolana volgarità di chi pretende di incontrare l’altro da turista. O da cultore di cineserie: l’altro reso innocuo, simile a un ninnolo di giada o di avorio che fa bella mostra di sé su di una mensola. Infine, l’eventualità più allarmante: afferrata nella furia dell’annientamento (in forma di ossessivo assimilazionismo egualitarista), la differenza si degrada a identico, così da far esplodere la tensione relazionale (agonistica, mai acquietata in una sintesi) che lega i due.

Ulteriore modalità: la relazione viene mantenuta, ma la sua verità è in realtà una menzogna, perché l’altro rimane, ma ridotto a stereotipo. Di ciò parla un libro, Orientalismo, assai sopravvalutato (come tutti quelli non pensati contro il loro tempo). Nelle sue pagine compare a un tratto il nome di Victor Segalen, accostato a quelli di tanti altri, tra cui Claudel, tutti colpevoli, con l’aggravante di non ignorare “la saggezza orientale”, di aver guardato “l’Oriente, e l’islam in particolare, con la sfiducia della quale l’atteggiamento della cultura europea verso l’Oriente era sempre gravato”. Il passo è un po’ contorto, ma l’accusa è chiarissima: Segalen avrebbe contribuito alla costruzione di quella stereotipata immagine europea dell’Oriente che Said ha ribattezzato orientalismo.

Le osservazioni di Said colpiscono per la loro sfrontata infondatezza. Claudel è, alla lettera, agli antipodi di Segalen. Accomunarli è un assurdo, che può rispondere solo a esigenze ideologiche. Infatti Claudel è impermeabile alle ragioni dell’altro; è colui che, con ostentata soddisfazione, confessa a Segalen di aver volutamente ignorato tutto della lingua cinese. Claudel non è che il rovescio speculare di Loti, il falso esota che si abbandona totalmente all’altro in un movimento di perdita progressiva del proprio, sacrificato sull’altare della immedesimazione con la differenza (dinamica, sia detto per incidens, complementare a quella più sopra indicata: non la differenza abbassata all’identico ma questo a quella). Segalen è altro da entrambi.

Segalen, così come si sbarazza velocemente del ‘tropicalismo’ à la page (anticipando di molto il Lévi-Strauss di Tristi tropici), non si lascia sopraffare dall’altro ma neppure lo rifiuta sdegnosamente; queste, le parole che dissolvono ogni possibile equivoco: “pur sentendo vivamente la Cina, non ho mai provato il desiderio di essere cinese”[1]. Né, tanto meno, e qui è tutta la distanza da Said, l’altro viene  manipolato sino a farne uno stereotipo, o, peggio, una esangue imitazione del proprio.

In uno, Segalen tenta di salvare se stesso e l’altro. L’opposizione al sogno assimilazionista è radicale: la differenza sparirà quando “persino nella remota Cina ci sarà qualche commesso-viaggiatore, trafficante ‘in paccottiglia ’89 e Diritti dell’Uomo’, pronto a fomentare rivoluzioni in nome di ideali come Progresso e Democrazia, cioè merce d’importazione e, per giunta, avariata” (p. 24). Con toni altrettanto recisi: “non illudiamoci di assimilare i costumi, le razze, le nazioni, gli altri ma, al contrario, rallegriamoci di non poterlo mai fare” (p. 46).

Ma lo sguardo sull’altro in Segalen è lucidissimo. Preservare il rapporto con l’altro, rispettarne l’estraneità, non ha nulla a che fare con qualsivoglia, banale, idealizzazione. Dare voce all’altro non significa farne l’ennesimo ritratto agiografico. Al contrario, quando Segalen rovescia la struttura stessa del ‘romanzo etnografico’, dando direttamente la parola ai tahitiani, finirà per registrarne impietosamente l’irreparabile perdita della memoria culturale. Les Immémoriaux: tali sono oramai gli abitanti delle un tempo felici isole del Pacifico. Dimentichi di se stessi, rappresentano l’eutanasia dell’alterità. Sotto la pressione dell’Occidente? Sia pure; ma Segalen rifugge dai troppo facili schematismi. Di certo non è ammaliato dal mito del buon selvaggio, né va alla cerca d’improbabili età dell’oro o di arcaismi quali che siano, ma è, insieme, consapevole dei guasti arrecati dal cristianesimo, del suo spaventoso potere eradicante. Anzi, proprio dalla tragica contrapposizione tra il parler ancien tahitiano e il nouveau parler del nuovo dio “Ièsu Kérito” emerge l’oblio profondo (senza rimedio?) del dire ancestrale tahitiano e il suo rimpiazzamento con nuove parole che dicono la morte degli antichi Dei e delle antiche tradizioni.

 

Giovanni Damiano

 

 

 

 

 


[1] V. Segalen, Saggio sull’esotismo. Un’estetica del Diverso. Pensieri pagani, ESI, Napoli 2001, p. 77 (le successive citazioni da quest’opera saranno indicate direttamente nel testo, col riferimento al solo numero di pagina). Sentire è termine cruciale in Segalen, essendo il modo elementare, e perciò tanto più efficace, di avvicinarsi all’alterità. Viene prima di ogni astratta e snervata concettualizzazione. È ciò che lo scrittore francese definisce più volte “sensazione di Esotismo” (pp. 41, 42, 44).