Senza ritenzione né ritegno

“Sie spielten am Meere, – da kam die Welle und riss
ihnen ihr Spielwerk in die Tiefe: nun weinen sie.”
“Giocavano in riva al mare – ma è giunta l’onda, a trascinarne nell’abisso i trastulli; e adesso loro piangono.”

Mentre rivedevo le bozze della versione italiana (in corso di pubblicazione per i tipi di Ar) di queste parole di Zarathustra, mi ha raggiunto – tardiva: essendo ormai vetusto, non sento più il desiderio di aggiornarmi attraverso la quotidiana lettura o televisura – la notizia degli ultimi ‘eventi catastrofici’ (li chiamano così, non so se per dare maggiore importanza alla nozione di evento o a quella di catastrofe). La tragedia giapponese osserva il ritmo della tragedia greca, ovvero di ogni dinamica tragica: alla fine di quest’ultima, il disastro. Che è davvero ‘apocalittico’, anche nel senso originario, remoto del termine; ossia è propriamente rivelatore. Di una, anzi della, perversione della modernità. L’ideologia della modernità ha pervertito tutti – anche i virtuosi giapponesi (l’epigrafe nietzscheana è estratta appunto dal paragrafo “Von den Tugendhaften” – “Dei virtuosi”…). Li definisco ‘virtuosi’, i giapponesi, perché essi, a differenza dei fanciulli zarathustriani, di fronte al disastro stanno composti: senza piagnucolare. Ma, la loro, è una virtù calcarea, quella che traspare dal guscio, vedovo del crostaceo, ormai andato in putrefazione. I Bushi, anziché farsi annientare dai nordamericani a metà Ottocento e a metà Novecento, hanno preferito la sopravvivenza: a qualsiasi costo, anche di sparire come Bushi. Che subire il pervertimento sia preferibile all’annientamento? E, in ogni caso, non è forse vero che a ogni perversione segue, sempre, prima la dissolvenza dell’‘immagine’ e infine la dissoluzione dell’idea? In altre parole: non che si vive, ma che si muore sempre e solo una volta sola?! E allora, perché tanto affanno a scampare per scomparire, alla fine? A questo punto, il mio rimando – non consiglio gratuito, ma interessata consulenza – è alla rilettura, serena ma severa, di Bushidō, e alla lettura, olo-caustica, di Tenchū, volumi apparsi nella collezione di Sannō-kai. Sopra tutto quest’ultimo, che è la narrazione dell’ultima rivolta dei ‘naturali’ giapponesi, impersonati dai giovani ufficiali dell’Impero, contro la tecnocrazia, quindi contro la plutocrazia. Ovviamente, s’ha da leggere non per dare soddisfazione a chi – autore o impresario d’autore – confeziona in libri le storie, né per riflettere sui fini della storia, ma per meditare sul Caso – e per praticare le virtù dell’‘estote parati’.
(Prevedendo le fluttuazioni delle virtù e dei valori negoziati in borsa, Zarathustra sèguita e promette: “Però la stessa onda nuovi trastulli recherà loro, e nuove conche iridate rovescerà loro dinanzi! Così si consoleranno […]”.)

Luciano Lìcandro
16 marzo 2011