Sulle malattie genetiche. Telethon e la presunta cura (di Cristina Coccia)

La consueta raccolta annuale di fondi a favore della ricerca medica finanziata da Telethon – che quest’anno è arrivata alla cifra di 31,3 milioni di euro[1] – ci pone dinanzi al problema delle malattie generate da mutazioni a carico del DNA, comunemente definite mutazioni genetiche. Il tema è uno dei più confusi, ma sembra che pochi siano disposti ad affrontarlo da un punto di vista diverso da quello della coscienza e della morale cristiana.

Tutte le popolazioni naturali che praticano esoincrocio, cioè accoppiamento non regolato e tra individui non appartenenti alla stessa linea parentale o allo stesso ceppo, quindi le popolazioni che non si riproducono per endogamia – tecnicamente definita inincrocio – recano, al loro interno, un carico di alleli deleteri, costantemente generati attraverso la mutazione e rimossi attraverso la selezione.

Un allele è una delle due forme alternative di un dato locus genico (ossia un segmento di un cromosoma all’interno del corredo genetico di una specie). Gli alleli deleteri rari vengono inclusi in quello che è denominato carico mutazionale e solitamente tale condizione si presenta con frequenze minori dell’1%, come accade con quelle delle sindromi umane rare: fenilchetonuria, albinismo, malattia di Huntington e diverse sindromi da immunodeficienze congenite e da deficit enzimatici. Anche nelle popolazioni selvatiche di animali e piante si riscontrano situazioni analoghe e, ad esempio, in molte specie di piante si annoverano numerosi casi di mutazioni che causano la mancanza di clorofilla e un certo numero di difetti di origine genetica sono stati descritti in diverse specie in pericolo: il difetto più preoccupante del condor della California è il nanismo, nella specie Varecia variegata ─ un lemure ─, vi sono casi di alleli deleteri che si manifestano con la mancanza di pelo e nei koala esistono mutazioni che portano all’assenza di testicoli. Un numero cospicuo di nuove mutazioni che si originano nelle specie conduce alla nascita di individui non sufficientemente adattati all’ambiente, quindi si può parlare di mutazioni deleterie. La maggior parte del genoma non si esprime nel fenotipo, ossia nelle caratteristiche osservabili di un organismo vivente, comprende, quindi, quello che è definito DNA non codificante[2]; quando le mutazioni colpiscono regioni di questo tipo non compromettono, almeno apparentemente, la fitness – ossia il successo riproduttivo, l’idoneità ad un determinato ambiente – degli individui e saranno, perciò, selettivamente neutrali, ma molto importanti per quel che concerne il mantenimento della diversità genetica all’interno della specie. Se, al contrario, le mutazioni alterano le sequenza degli amminoacidi durante la sintesi delle proteine, cioè si trovano all’interno di loci funzionali, sono prevalentemente deleterie. Le mutazioni deleterie, purtroppo, si originano in numerosi loci, quindi in numerosi segmenti di DNA con una particolare localizzazione sul cromosoma, e non soltanto, come spesso tendono a far credere medici e patologi, in un singolo gene. Ciò significa che il tasso cumulativo di alleli deleteri è notevolmente più elevato dei tassi riportati per i singoli loci e questi tassi cumulativi risultano di grande importanza se si vuol considerare il carico totale di mutazioni nelle popolazioni. Fortunatamente è assodato che la selezione tende a cancellare gli alleli deleteri. Tuttavia il tempo necessario è talmente lungo che, quando insorgono nuove mutazioni, le precedenti ancora non sono state eliminate, specialmente se si sta parlando di alleli recessivi, cosicché si tende al raggiungimento di un equilibrio tra la comparsa di alleli deleteri, causata dal processo di mutazione, e la loro rimozione per selezione. Esso viene definito, appunto, equilibrio mutazione-selezione. Da questa situazione si genera, quindi, una certa frequenza di alleli deleteri riscontrabile in ogni popolazione naturale e che entra a far parte del carico mutazionale[3].

Riassumendo: esiste sempre un carico genetico in tutte le specie e in tutte le forme viventi e gli alleli deleteri sono presenti, normalmente, a basse frequenze, ma sono presenti in numerosi loci.

Le specie si modificano in relazione alle esigenze determinate principalmente dai cambiamenti ambientali e le mutazioni adattative sono già potenzialmente scritte nel loro genoma. Tuttavia, per una sopravvivenza su un lungo periodo ed un miglioramento della qualità della specie, è necessario che operi la selezione sulla variazione genetica, aumentando la frequenza degli alleli vantaggiosi. L’adattamento può manifestarsi sia come cambiamento fisiologico che come modificazione comportamentale, quando gli individui mutano per far fronte a nuove condizioni esterne, o ancora come adattamento genetico, quando, appunto, la selezione naturale altera la composizione genetica delle popolazioni nel corso di alcune generazioni. La selezione è l’unica forza che migliora l’adattamento e agisce promuovendo gli alleli portati da individui che danno vita ad un numero maggiore di progenie fertile, e diminuendo la frequenza di alleli deleteri. Il caso estremo di allele deleterio è un letale recessivo, come ad esempio un allele che, se presente in condizione di omozigosi recessiva[4], si manifesta come malattia, disadattamento e morte dell’individuo e, se presente in condizione di eterozigosi, non interferisce con la capacità riproduttiva dell’individuo. Ad esempio, nel condor a cui prima si accennava, e che è una specie in pericolo, tutti gli omozigoti per il nanismo condrodistrofico muoiono quando le uova si schiudono. In quel momento sta agendo la selezione naturale, che, però, opera anche sugli individui che hanno il gene in eterozigosi, riducendo la frequenza dell’allele deleterio, di generazione in generazione. Si tende, quindi, verso la totale scomparsa dell’allele, condizione chiaramente impossibile, ma auspicabile per la salute della popolazione intera. Si potrebbe dire, quindi, che quello che sarebbe preferibile per gli sfortunati individui affetti da condrodistrofia, cioè la sopravvivenza, minaccerebbe la conservazione, invece, dell’intera popolazione di condor e, di conseguenza, dell’intera specie. La selezione, agendo in tal modo, aumenta sempre la frequenza di alleli vantaggiosi. Nell’uomo questo processo subisce le interferenze sociali della filantropia, della ‘carità’ e delle organizzazioni senza scopo di lucro, come la Fondazione Telethon. Esse non si propongono soltanto di assistere gli individui affetti da tali patologie – attività che certamente deve essere svolta ─, ma di curarli, cioè di eliminare la malattia. La notissima fondazione, ogni anno, da 25 anni, propone nel palinsesto Rai trasmissioni indirizzate alla raccolta di fondi destinati a progetti di ricerca e al finanziamento di istituti fondati e gestiti dalla Telethon stessa. Inoltre, con una parte dei fondi si finanziano altre raccolte di fondi e si tiene in piedi, in questo modo, per anni, la macchina del business della malattia. L’illusione è naturalmente quella che muove ogni campo della società moderna: la cura. Telethon è nata dall’accordo, innanzitutto economico, tra Susanna Agnelli, notissima filantropa, e l’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare (Uildm) per finanziare e promuovere ricerca scientifica sulle malattie genetiche, malattie rare e trascurate dai grandi investimenti pubblici e privati.

Non volendo tediare il lettore con una minuziosa analisi della destinazione effettiva dei fondi raccolti dall’iniziativa, esaminiamo la distrofia muscolare come patologia.

Si tratta di una malattia congenita, appunto, che raccoglie, sotto questo nome, un gruppo di gravi malattie neuromuscolari a carattere degenerativo, dall’origine genetica e che determinano una progressiva atrofia della muscolatura scheletrica. Se ne conoscono, e si studiano, principalmente due tipi: la distrofia di Duchenne e quella di Becker, la prima più aggressiva e la seconda meno nociva. La frequenza della distrofia di Duchenne è di circa 22 individui maschi su 100.000 e l’incidenza della distrofia di Becker è di più di 3 su 100.000, quindi al massimo dello 0,02 % (Fonte: OMIM Entry -  #310200). Si tratta, appunto, di una malattia determinata da uno degli alleli deleteri menzionati prima, e la cui particolare gravità dipende dall’essere causata da mutazione a carico del cromosoma X, portato in doppia copia dalle femmine e in singola copia dai maschi.

Naturalmente, esiste una forte predisposizione familiare; poiché la patologia è trasmessa come tratto recessivo legato all’X, si manifesta prevalentemente nei maschi. La donna con un solo cromosoma X mutato è detta portatrice sana della malattia: ciò significa che questa condizione è compatibile con una vita normale e con la generazione di figli, dopo l’unione con un uomo sano. Tuttavia, i figli possono ereditare il cromosoma X mutato e, se maschi, hanno il 50% di probabilità di nascere malati o sani. Al contrario, se sono femmine, hanno il 50% di possibilità di nascere portatrici sane oppure sane. Da ciò si evince che è strettamente necessario e doveroso sottoporre individui malati o donne portatrici sane ad un’attenta analisi genetica e ad una valutazione dei rischi nelle possibili unioni. L’ipotesi più avvalorata è che vi sia una mutazione spontanea nell’ovocita materno o durante lo sviluppo embrionale del feto. Occorre, in sintesi, agire maggiormente sulla prevenzione, sul monitoraggio e sulle diagnosi prenatali, piuttosto che sulla terapia quando la patologia già si è completamente manifestata.

Diversi gruppi di ricerca, nel mondo e in Italia, stanno studiando questa forma di distrofia, per elaborare approcci terapeutici più efficaci. Al momento, i risultati emergono da ricerche riguardanti il miglioramento della terapia steroidea, che valuta il tipo e la dose di steroide più adeguata a mantenere il tono e la forza muscolare. Esiste una terapia genica, detta ‘exon skipping’ che, a quanto si dichiara, potrebbe essere in grado di ripristinare la sintesi proteica di distrofina, la proteina mancante o difettosa nelle due forme di distrofia muscolare. Questa sperimentazione è arrivata alla fase umana, ma si tratta di una tecnica di biologia molecolare che ripara l’RNA e non il DNA, quindi non il gene, ma il prodotto del processo di trascrizione. In altri termini, non si agisce sul DNA difettoso, ma sull’RNA messaggero copiato da esso, togliendone la regione mutata al fine di renderlo nuovamente capace di fornire una proteina, un po’ più corta, ma funzionante. Esiste anche una terapia cellulare che usa cellule staminali, ma è in fase preclinica e, come sempre avviene, impiega la sperimentazione animale. Si stanno valutando, inoltre, diversi farmaci, ma, anche in questi casi, le sperimentazioni sono ancora alla fase animale. Si tratta sempre di terapie che alleviano soltanto i sintomi, in quanto non esiste alcuna cura specifica per la distrofia muscolare. Per quanto riguarda le altre patologie studiate dai centri di ricerca Telethon, nella pagina web della fondazione si deduce che ci sono ben 14 patologie in fase pre-clinica, quindi nella fase di sperimentazione animale, 8 in fase clinica e soltanto 1 malattia, l’immunodeficienza combinata grave (Ada-Scid), che prevede una terapia genica con risultati promettenti. Questa terapia attualmente coinvolge 16 bambini. Per le altre patologie su base genetica, i tassi di incidenza, in Italia, non risultano affatto diminuiti. C’è da chiedersi, quindi, la prossima volta che, in televisione, rigorosamente in prima serata e per almeno una settimana, ci appariranno volti di bambini sofferenti che ‘combattono’ contro questa o quella malattia congenita rara, se vogliamo continuare a fare l’elemosina a queste fondazioni, illudendoci che i nostri denari vadano realmente a quei bambini e non ai responsabili di qualche centro di ricerca o, peggio, alle multinazionali del farmaco, oppure desideriamo che ci siano sempre meno bambini in tali condizioni, destinati a vivere costantemente in terapia.

Sul Sole24Ore di domenica 7 dicembre si legge un articolo sulle eccellenze made in Italy, dal titolo “Telethon batte Harvard – La charity italiana supera anche Oxford e Yale per numero di citazioni delle pubblicazioni scientifiche”.

Bene: una lode ai centri di ricerca finanziati da Telethon, come l’Istituto San Raffaele-Telethon per la Terapia Genica (TIGET) a Milano o l’Istituto Telethon di Genetica e Medicina (TIGEM) di Pozzuoli (Napoli). Centri di ricerca fondati da Telethon e finanziati dalla fondazione stessa. I soldi delle donazioni servono, in sintesi, a sostenere un circolo vizioso che si regge su una rete di contatti tra manager scientifici e aziende farmaceutiche.

Certo: è magnifico, senza dubbio lodevole che questi centri raggiungano le vette della ricerca biomedica, ma questo traguardo a cosa porta, a parte alla conquista del tanto ambito ‘prestigio internazionale’, della credibilità e dell’apprezzamento nella comunità scientifica? Certamente molte carriere ne trarranno beneficio, ma non per questo i giovani ricercatori riceveranno un aumento, o si creeranno più posti di lavoro nelle università o l’Italia risulterà più credibile a livello internazionale, né i bambini italiani nasceranno più sani. L’unico dato certo è che aumenterà il numero di pazienti in terapia: sempre più bisognosi dei farmaci e di nuove molecole, come i chaperone farmacologici, che certamente stabilizzeranno le proteine mutate, ma non cureranno all’origine la mutazione. Le terapie, le speranze servono ad incrementare la pubblicazione di studi scientifici, a lastricare d’oro le strade dei responsabili dei progetti di ricerca, ad aumentare il numero dei brevetti della Telethon e, quindi, a dare un’immagine sempre migliore di quest’iniziativa. Un perfetto meccanismo che produce soldi prelevandoli direttamente dalle tasche dei cittadini. In che modo? Facendo leva, stavolta, non sul senso del dovere che spinge la persona onesta a pagare le tasse, ma sulla ‘coscienza’, sul desiderio di delegare qualcuno a fare del bene, a fare la cosa eticamente più giusta. In fondo è lo stesso automatismo mentale che si genera quando si vede un mendicante in strada che chiede denaro tenendo per mano un bambino o, meglio ancora, quando è il bambino stesso ad implorare. Chi potrebbe mai resistere a quest’immagine? Ecco perché la televisione pubblica italiana (che poi non si capisce perché, essendo pubblica, cerchi finanziamenti per enti privati) impone immagini di bambini malati in prima serata, alternandoli alla scollatura di qualche primadonna o all’abbronzatura artificiale dell’ultimo presentatore di moda. Poi non conta se dietro le quinte della Rai ci sono le tangenti, le presunte assunzioni dirigenziali poco chiare e altre torbide situazioni. E perché se questo avviene in Rai non può avvenire anche nei centri di ricerca privati? Solo perché loro sono rappresentati da persone serie che lavorano per la Scienza? Non bisogna pensar male, solo fare del bene e donare per la ricerca. Basta che sia ricerca, tutto è lecito. Ma allora sarebbe lecito anche cercare il modo di preservare la nostra specie e i nostri habitat, inquinati dagli stessi dirigenti che il giorno dopo donano parte dei loro ricavi alle associazioni benefiche, per pulirsi la coscienza. E sarebbe anche lecito condannare i centri di ricerca che usano animali per testare farmaci in fase pre-clinica, negando l’evidenza che la sperimentazione animale non porta ad alcun dato utile in ambito tossicologico. Bisognerebbe chiedersi, più che tentare di curare la malattia, se non sia più giusto prevenirla, fornendo una corretta consulenza genetica alle persone che decidono di unirsi e procreare. La farmaceutica, le terapie non sono che pure illusioni che lasciano immaginare, in un lontanissimo futuro, un miglioramento della condizione di vita dei malati. Ma la malattia non diminuirà in questo modo e inciderà sempre più sullo stato di salute della popolazione italiana. Le campagne di sensibilizzazione e di raccolta di fondi nascondono una menzogna ben occultata: l’umanità ha costantemente bisogno di nuovi farmaci, è prigioniera delle industrie farmaceutiche. È fondamentale, invece, partire da un’idea di salute che molte persone non coltivano più nel loro pensiero critico, ma che rimane sempre custodita nella parte più interna dell’organismo umano. È questo il motivo per cui la natura, tramite la selezione, già ci fornisce uno stratagemma per diminuire il carico delle malattie sullo stato di salute della nostra specie. La ricerca è utile ed efficace se punta al miglioramento della diagnosi e della prevenzione delle mutazioni che causano le malattie congenite. Tuttavia, il vizio di fondo che emerge da queste raccolte di fondi è la precisa volontà di creare un’allucinazione ed è nostro dovere non sperperare soldi per farli confluire nelle tasche di poche persone che usano la condizione di malattia per i propri interessi personali. Assai più grave è il fatto che, insieme ai risparmi, si stia dilapidando un altro patrimonio, indubbiamente più prezioso: il nostro patrimonio genetico, una ricchezza incommensurabile, che, una volta perduta, nessuno potrà più rigenerare. Si consideri anche questo, tra uno spot televisivo e l’altro, perché nessuno, in televisione, lo dirà mai. È necessario concepire la filantropia andando oltre gli intenti individualistici e ritornando all’idea che, durante la nostra esistenza, tutti noi siamo custodi di un patrimonio che, di generazione in generazione, deve essere preservato, ad ogni costo; un patrimonio che non appartiene alla visione quantitativa ed economica moderna, ma che difende e tramanda la qualità e la virtù di una discendenza. Conservare i propri geni, la propria diversità, e la forza che da essa deriva, è un dovere. Un dovere che non può essere comunicato dai mass media, ma che risiede nel sangue, nelle cellule e nel DNA, il miglior programma di autoconservazione che la natura potesse creare.


[1] Fonte: la Repubblica.it http://www.repubblica.it/salute/ricerca/2014/12/15/news/telethon_raccolti_31_3_milioni_di_euro_per_la_ricerca-102958894/

[2] Si ricorda che soltanto l’ 1,5 %, su un totale di 20.000-25.000 geni del genoma umano, è codificante, quindi esprime delle proteine. Il resto è considerato non codificante, non se ne conosce la funzione, ed è composto da pseudogeni,  elementi ripetuti e trasposoni. (Fonte: International Human Genome Sequencing Consortium, Initial sequencing and analysis of the human genome. In Nature, vol. 409, nº 6822, 2001, pp. 860-921, PMID 11237011. Initial sequencing and analysis of the human genome : Article : Nature)

[3] Per chi volesse approfondire la questione, tale frequenza è facilmente calcolabile con l’equazione q = Ö(u/s), dove q è la frequenza dell’allele recessivo letale, u è il tasso di mutazione e s il coefficiente di selezione).

[4] Si manifesta, cioè in doppia copia, in corrispondenza dello stesso locus, su entrambi i cromosomi omologhi. Risalendo alle definizioni di Mendel, un omozigote recessivo è identificato da due lettere in corsivo: aa. Un eterozigote presenta, al contrario, avrà due alleli diversi, in corrispondenza del medesimo locus genico su due cromosomi omologhi, e sarà identificato con le lettere Aa.

 

22-12-2014                                                                                                                                                                                                                                             Cristina Coccia